martedì 13 luglio 2010

NAGORNO KARABAKH, UNO STATO INESISTENTE

Gli azeri, nella loro lingua, lo chiamano ‘Giardino nero di montagna’. Dall’alto sembra un piccolo fagiolo, con rientranza ad est, che si estende per quattromila quattrocento chilometri quadrati quasi totalmente nel territorio azerbaigiano, mentre ad ovest, con una piccola striscia di terra prova a toccare il suolo dell’Armenia, madrepatria che fin dall’antichità ne ha custodito i confini. Questa regione che dalla traslitterazione del russo Нагорный Карабах (Nagornyj Karabach) prende il nome di Nagorno Karabakh, di fatto è, da 18 anni, una piccola stato indipendente arroccato tra le montagne della Transcaucasia, abitato da armeni e piccole minoranze azere e curde, con un solo difetto, nessuno che sia disposto a riconoscerlo.



La repubblica presidenziale, dal 1992, da quando una guerra vittoriosa contro l’Azerbaigian l’ha smarcata dal giogo di Baku, si è dotata a tutti gli effetti di sue istituzioni: un suo presidente, un governo, un parlamento e un esercito personale che celebra l’alzabandiera ogni mattina muovendo le labbra sull’inno nazionale. In vari paesi, come l’Armenia, la Russia, la Francia, il Libano e gli Stati Uniti, ci sono addirittura delle missioni con funzione di rappresentanza del governo del Karabakh che ufficialmente e su ogni cartina geografica è di fatto però uno stato fantasma. Il territorio del Nagorno, ricoperto soprattutto sulle catene da fitte foreste che sovente lasciano spazio ad ampie vallate incredibilmente piatte, lungi dall’essere edenico luogo, è infatti il terreno di scontro preferito di Armenia e Azerbaigian, stati ‘neonati’ dalla dissoluzione sovietica, che dagli albori della loro prima esistenza ne rivendicano entrambe il possesso, chiamata la prima da semplici ragioni storico-culturali, da macchinosi invece interessi logistico economici la seconda.

Se la storia volle questa enclave, oggi solo militarmente protettorato di Yerevan, suolo appartenente, già dall’antichità, alla storica Armenia (in tempi moderni ridotta a un decimo della cristiana potenza), con l’impero zarista, nel XIX secolo, la regione entrò a far parte del territorio russo. Caduto quest’ultimo nel1917 per opera della rivoluzione d’ottobre, la sciabola bolscevica la tramutò in parte integrante della Federazione Transcaucasica, che ben presto però si divise tra Georgia, Armenia e Azerbaigian, lasciando a quest’ultima la potestà territoriale, nonché la sovranità della provincia. Così facendo, la mussulmana repubblica azera, si guadagnava un confine e una via d’accesso commerciale con la naturale alleata, la Turchia.

Le pretese azere, seppur prive di ogni giustificazione storico-politica, vennero sostenute dalla Gran Bretagna in cambio dell’accesso ai pozzi petroliferi di Baku. Così, nel 1919, il cristiano e armeno Nagorno-Karabakh fu annesso alla turcofila repubblica dell’Azerbaigian. Gli armeni vissero l’annessione come un’ingiustizia che riapriva la tragica ferita, ancora freschissima, del genocidio di un milione e mezzo di armeni da parte dei turchi. L’avvento del potere sovietico non mutò la situazione. Nel 1921 Stalin, per non inimicarsi i petrolieri azeri e gli amici turchi, sperando che anche lì il comunismo potesse trionfare nell’ex impero ottomano, sotto comando del ‘dividi et impera’ confermò il Nagorno-Karabakh come parte della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian.

Il regime di Baku non fu tollerante con i nuovi arrivati, avviando ben presto nell’annessa regione caucasica una strisciante politica di pulizia etnica verso gli armeni, costretti con la forza a mettere da parte ogni velleità indipendentista. Quando, con la dissoluzione dell'Unione Sovietica alle porte, tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, la perestroika avviata dal presidente russo Gorbaciov rianimò il nazionalismo armeno-karabakho, la questione dell’affrancamento dall’adottivo Azerbaigian riemerse.

Lamentando l'azerificazione forzata della regione operata da Baku, la locale popolazione armena, con il supporto ideologico e materiale dell'Armenia stessa, cominciò a mobilitarsi per riunire la regione alle madrepatria. Il 20 febbraio 1988 i deputati armeni del Consiglio Nazionale del Nagorno-Karabakh votarono la riunificazione della regione alla madrepatria. Ne derivarono tensioni e scontri tra nazionalisti armeni e azeri, che il 24 febbraio provocarono la morte di due giovani azeri. Il giorno dopo a Sumgait, un sobborgo industriale di Baku, i nazionalisti azeri sostenuti dal governo reagirono con un violento pogrom anti-armeno che diede inizio a una spirale di violenze e che culminò, nell’aprile 1991, nell’Operazione ‘Anello’, sferrata dall’esercito azero per completare, con la violenza, l’opera di pulizia etnica del Karabakh. Nel 1991, il vuoto lasciato dal crollo sovietico fece divampare la contesa per la regione.

Quando il 30 agosto l’Azerbaigian dichiarò l’indipendenza da Mosca, tre giorni dopo il Nagorno-Karabakh non poté esimersi dal fare altrettanto da Baku, sfruttando un articolo della Costituzione sovietica secondo il quale se una repubblica decideva di staccarsi dall'Urss, le varie repubbliche o regioni autonome comprese nella repubblica secessionista avrebbero avuto diritto a reclamare la propria indipendenza. Gli armeni dell’enclave non se lo fecero ripetere due volte e da qui, l’inizio della guerra fra le neonate repubbliche dei due paesi fu inevitabile. Nonostante l’aiuto dei turchi, degli iraniani, dei mujaheddin afgani e ceceni, gli azeri non riuscirono a tener testa alle motivate forze armene e karabakhe, sostenute e armate dalla nuova Russia, che infatti presero il controllo del Nagorno-Karabakh e dei territori azeri vicini, necessari a collegarlo con l’Armenia.

Intanto, preoccupati per il perpetuarsi delle attività belliche, i ministri degli esteri degli stati membri dell'Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), il 24 marzo 1992 decisero di indire una conferenza di pace a Minsk (Bielorussia) con la partecipazione, oltre che dell'Armenia e dell'Azerbaigian, anche della Russia, degli Stati Uniti e di Italia, Germania, Cecoslovacchia e Svezia. Il risultato fu però un nulla di fatto. Il cessate il fuoco arrivò infatti solo tre anni dopo l’inizio della contesa che portava ormai sulle sue spalle il peso di oltre 30mila morti e di circa un milione di profughi. Fu nel maggio del 1994 che, grazie alla mediazione russa, i due stati contendenti giunsero all’armistizio, ma senza una pace il problema di fondo rimase, l’appartenenza del Nagorno-Karabakh all’Armenia o all’Azerbaigian.


LA GEOPOLITICA INTERNAZIONALE E GLI OSTACOLI ALLA PACE
I delicati equilibri internazionali per il controllo delle risorse sembrano non giocare a favore del piccolo Nagorno, spossato ormai da decenni da tensioni esterne (la contesa tra Armenia e Azerbaigian) e interne (i rapporti non affatto semplici con le minoranze curde e soprattutto azere) che premono sui suoi confini.
A complicare la situazione e a rendere difficoltosi i negoziati tra i due paesi, patrocinati con scarso successo dall’Osce, sono intervenuti spinosi aspetti di geopolitica internazionale. L’Armenia ha progressivamente stretto i suoi legami politici ed economici con l’Iran e la Russia. L’Azerbaigian ha fatto altrettanto con la Turchia, la Georgia e gli Stati Uniti, soprattutto in relazione alla costruzione, iniziata nel 2002, del mega-oleodotto Baku - Tbilisi - Cheyan (Btc) e inaugurato 4 anni fa.

Un progetto da quattro miliardi di dollari voluto dalle compagnie petrolifere americane ed europee per portare sui mercati occidentali lo strategico petrolio del Mar Caspio dalle coste azere della capitale Baku, ai terminal turchi di Cheyan, passando per la Georgia, e bypassando così il territorio russo e iraniano (entrambi filoarmeni). Un progetto che Mosca considera estremamente dannoso per i propri interessi economici e che per questo vedrebbe volentieri naufragare, a causa, magari, proprio della riesplosione di un conflitto armato proprio in una delle zone di passaggio delle condutture. Il Btc, tra l’altro, non sarebbe l’unico progetto che con il sostegno della Turchia, Baku, dipendente per il novanta per cento dall’esportazione del greggio, avvallerebbe.

Aiutata dalla Georgia, assieme alla quale da anni è stata intrapresa una politica energetica di collaborazione per sottrarre alla Russia l’egemonia della sottrazione del petrolio caspico, in previsione del raggiungimento di un’indipendenza non solo formale da Mosca, la capitale azerbaigiana ha avviato nuovi progetti per l’allargamento dei gasdotti esistenti, come il Baku-Tbilisi-Erzurum, considerato il primo tratto del più ampio progetto del Trans-Caspio. Il gas azero potrebbe rientrare però in una partita ancora più grande che stavolta tocca l’Europa: il progetto Nabucco, sponsorizzato dall’Unione Europea, sostenuto dagli Stati Uniti e concepito per ridurre la dipendenza del vecchio continente dal gas russo diversificando le forniture a fronte di una crescente dipendenza dalle importazioni di energia.

La rete prevede la costruzione di un gasdotto di 3.300 km che dalla Turchia dovrebbe arrivare fino all’hub di gas dell’Europa centrale, a Baumgarten in Austria. Il progetto che al momento sembra più un pronostico sulla carta che un’opera destinata a realizzarsi nel breve periodo (tanto che aggiustamenti nella tabella di marcia ne avevano previsto l’inizio dei lavori nel 2009 con completamento nel 2013 della prima fase e nel 1018 della seconda), continua ad essere rinviato in parte per al divieto statunitense di sviluppare il gas iraniano, in parte per i problemi di bilancio legati alle difficoltà di attirare gli investimenti privati necessari a finanziare il progetto. A far arrancare le buone intenzioni inoltre, ulteriore problema, i contratti con i fornitori. Ed è qui che l’Azerbaigian viene a figurarsi in un ruolo centrale. Il giacimento azero di Shah Deniz sembra essere infatti uno tra i favoriti, non si esclude quindi il possibile ingresso della compagnia petrolifera nazionale dell’Azerbaigian, partner di Bp nell’estrazione del gas dal giacimento di Shah Deniz, nel consorzio di Nabucco.

Al di là dei progetti in fieri, è nel frattempo l’arma del petrolio azero quella che si sta dimostrando la più efficace nei confronti delle potenze internazionali, che nonostante i tentativi di pace avviati, di fatto, non riconoscendo ufficialmente l’indipendenza della regione caucasica, lasciano così in mano all’Azerbaigian, che ne reclama il possesso promettendo un non ben definito "alto grado di autonomia", il coltello della contesa che preme sull'Occidente per costringere gli armeni alla cessione del territorio karabakho. Perché di fatto il Karabakh, salvo la zona settentrionale, dal 1991 è in mano armene, militarmente almeno. E l'Armenia ed il Karabakh, dati i precedenti, non fidandosi delle promesse della nazione mussulmana e turcofila, pretendono che il Karabakh non sia sottoposto all'Azerbaigian, ma abbia una contiguità territoriale con la madrepatria cristiana e sicure garanzie per la propria sicurezza.




LE RICHIESTE DI ARMENIA E AZERBAIGIAN


Il complesso processo di pace riguardante il Nagorno Karabakh dal 1993, data del cessate il fuoco, tra battute d’arresto e momenti d’alta tensione tra le due potenze contendenti, la cristiana Repubblica armena e il mussulmano Azerbaigian, non si è mai arrestato. A tentare una mediazione negli anni successivi furono la Russia, il Kazakistan e l'Iran, a cui si aggiunsero l'Onu e la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Tutti i negoziati ebbero però scarso successo e spesso i cessate il fuoco non vennero rispettati. Una nuova fase si è aperta intanto dal 2004, quando ha avuto inizio il ‘processo di Praga’; in quel caso, come anche in occasione della dichiarazione di Madrid del novembre 2007 o la dichiarazione di Mosca del novembre 2008, gli accordi sono stati sottoscritti da Armenia ed Azerbaigian, senza la partecipazione delle autorità dello stesso Nagorno Karabakh. Un insuccesso della politica internazionale che sembra non essere in grado di venire incontro alle richieste della repubblica caucasica, che si scontra con le mire azerbaigiane a voler mantenere intatti i propri confini includendo la piccola enclave armena.

Difficilmente conciliabili, le pretese azere e quelle karabakhe basano le loro pretese su principi totalmente differenti. Per la repubblica turcofila l’integrità del proprio suolo è il punto imprescindibile per avviare con il Karabakh una politica più ‘distensiva’. La regione caucasica dal canto suo non vuol venire meno alla sua necessità di autodeterminarsi come popolo. L'Azerbaigian, che considera tra l’altro questa disputa una contesa esclusiva fra lo stato armeno e quello azero, per poter accusare Yerevan di mire territoriali, si rifiuta di trattare con i rappresentanti del Karabakh, rendendo fattualmente la conciliazione sempre più lontana. Dall’altra parte l'Armenia, rigettando l’impostazione di Baku, continua a battersi perché le trattative avvengano tra i governi azerbaigiano e karabakho, che disertando puntualmente ogni tavolo di trattativa, permette alla capitale azera di fare il vuoto attorno alle pretese filo armene che nessuno stato occidentale di fatto sembra disposto ad accettare.
Se il cessate il fuoco, instaurato nel 1994 fino ad ora ha retto, lascia dietro di sé una tregua fragile che potrebbe minare gli interessi che Iran, Turchia, Stati Uniti e Europa lasciano trasparire per le preziose forniture di petrolio e gas caspico che Gazprom, il colosso energetico russo e Mosca non intendono cedere al dominio dei vicini orientali. Il rinfocolarsi continuo del nazionalismo azero contro il dominio armeno nella regione karabakha non sembra inoltre voler lasciare spazio ai tentativi dell’Armenia che, per una mediazione tra le parti, sarebbe disposta, in cambio di un accordo stabile, a cedere alcuni dei suoi territori, circostanti i confini dell’enclave, chiedendo, in cambio, il riconoscimento dell'indipendenza del Karabakh da parte dell'Azerbaigian, o l'annessione all'Armenia.
E il problema del riconoscimento, o meglio della modalità secondo la quale il processo dovrebbe avvenire, rimane una delle questioni insormontabili sulle quali Yerevan ancora una volta non riesce a trovare l’appoggio del suo vicino di casa. Se il governo armeno vorrebbe difatti che il riconoscimento da parte azera dell'indipendenza della regione caucasica avvenga contestualmente ( e non successivamente) alle loro cessioni territoriali, l'Azerbaigian, dal canto suo, invece, propone, solo per un avvio delle trattative, il preventivo ritiro di tutte le forze armene dall’enclave. Secondo Baku, la smilitarizzazione del territorio azero occupato è infatti il primo passo obbligato per dare inizio a colloqui e mediazioni per la definizione dello stato giuridico del Karabakh. Definizione a proposito della quale il governo azerbaigiano non ha reso nota alcuna proposta che non sia fino ad ora andata oltre la promessa del riconoscimento, alla regione, di un ‘alto grado di autonomia’.
E' evidente che, accettando l'impostazione azera, gli armeni si priverebbero dell'unica arma atta ad assicurare il riconoscimento dell'indipendenza del Karabakh, che,una volta restituiti all'Azerbaigian i territori circostanti la regione, diverrebbe molto più vulnerabile di fronte ad un probabile attacco azero, volto a riconquistare l'intero Karabakh. Nell'ambito delle varie proposte è stata anche ripetutamente ventilata l'ipotesi di una cessione agli azeri di una lingua di terra nel sud dell'Armenia, il cosiddetto corridoio di Meghrì, per permettere all'Azerbaigian di raggiungere la contiguità territoriale con il Nakhicevan, regione che gli appartiene, ma dalla quale è separato da un diaframma costituito dalla porzione meridionale dell'Armenia.
In cambio di questa cessione, l'Azerbaigian cederebbe il Karabagh all'Armenia. Ma quest'ultima fino ad ora si è opposta affermando che non è disposta a cedere un territorio armeno per ottenere in cambio un altro territorio armeno. Inoltre la cessione di Meghrì all'Azerbaigian priverebbe l'Armenia del confine con l'Iran, paese amico che costituisce la principale via di comunicazione dell'Armenia con l'esterno. Oltre a ciò, una volta ceduto Meghrì, l'Armenia verrebbe circondata da tre lati da stati ostili, Turchia ed Azerbaigian. Rimarrebbe al nord la Georgia, paese instabile che, desideroso di affrancarsi dal giogo russo, si avvicina sempre più alla Turchia. Con tutto quello che ciò può comportare per l'Armenia.


IL NAGORNO KARABAKH E LA PACE IMPOSSIBILE TRA ARMENIA E TURCHIA
Mediterraneo e Caspio non si riavvicineranno. L’Armenia da una parte, la Turchia dall’altra, un anno dopo la firma dell’accordo storico che le aveva viste brindare assieme alla normalizzazione dei rapporti tra i due paesi e alla riapertura delle frontiere, vede sbiadire così l’inchiostro che le aveva unite sette mesi fa, almeno sulla carta. Un respiro di sollievo per l’Azerbaigian che in seguito alla ratifica del trattato si era innervosito alla notizia degli storici alleati turchi in combutta con gli storici nemici armeni, senza che neanche fra i due vi fosse stato cenno esplicito a voler risolvere l’annosa questione del Karabakh ‘azero’, trasformatasi nel 1993 in enclave armena sotto il controllo dei soldati di Yerevan.
La data è storica perché fu da allora, per mostrare solidarietà ai suoi fratelli turcofoni, che Ankara decise di chiudere le sue frontiere orientali. Da due mesi a questa parte il matrimonio in crisi tra Azerbaigian e Turchia sembra però essersi avviato verso una seconda luna di miele. Motivo scatenante della rinnovata passione, neanche a parlarne, il congelamento dell’epocale accordo con l’Armenia, comunicato per l’occasione dallo stesso governo di Yerevan, che ha motivato la decisione con ragioni di principio, in apparenza vaghe: mancanza di convinzione e di impegno, scarsa disponibilità a firmare in breve tempo l’accordo senza apportare modifiche da parte di Ankara e tensioni ancora esistenti. Se da parte turca rimangono aperte le porte per arrivare alla normalizzazione degli accordi bilaterali e rispettare gli accordi di pace raggiunti con l’Armenia, il governo anatolico conferma però che persiste qualche problema a dividere i due vicini.
Nulla di fatto quindi per turchi e armeni, sulla quale pende la spada della regione caucasica, azera di nome e armena di fatto ormai da 18 anni. E’ infatti il nodo per Nagorno-Karabakh che i due paesi non riescono a sciogliere e sulla quale l’Armenia vuole garanzie precise dai vertici di Ankara. E dire che giusto all’indomani dello storico accordo su un quotidiano di Istanbul, a dispetto delle polemiche azere, erano apparse indiscrezioni sul possibile ritiro delle truppe armene dal Karabakh. Secondo il giornale, nei colloqui che avevano portato alla firma dei protocolli di riconciliazione con la Turchia, Yerevan avrebbe infatti manifestato la volontà di venire incontro alle richieste dei contendenti azeri, promettendo che i suoi soldati avrebbero abbandonato l'enclave prima della riapertura del confine.

Sarebbe stato un passo epocale, ma sicuramente troppo in là per il piccolo stato armeno, dove l'opinione pubblica, accolta la notizia dell’accordo per la riapertura del confine occidentale, aveva cominciato a manifestare una certa insofferenza e malcontento per l’atteggiamento del suo presidente che pur di andare incontro ad Ankara stava vistosamente scivolando su due argomenti cruciali per il popolo armeno: il riconoscimento del genocidio turco e quello, appunto, dello status del Nagorno Karabakh. Preponderante la questione di principio quindi; di fatto Yerevan non è decisamente disposta ad abbandonare a sé stessa una regione che la guerra e la retorica nazionalista hanno trasformato nel simbolo stesso dell'orgoglio patriottico.
Nonostante dalla presidenza armena ci fossero state infatti dichiarazioni ambigue circa la risoluzione della contesa che lasciavano trasparire la possibilità per la piccola enclave di decidere con il consenso e la libera volontà della popolazione armena che vive lì, il gelo ricalato tra i due paesi dimostra che la questione è tutt’altro che risolta e tutt’altro che risolvibile in tempi brevi. Senza contare che anche l’ammissione del mea culpa turco nei confronti della confinante Armenia per i pogrom portati avanti dai Giovani turchi a metà della seconda decade del Novecento sembra lasciare aperto un divario insanabile.
A dimostrarlo l’atteggiamento non proprio riservato del governo di Ankara che alla notizia del riconoscimento del genocidio turco da parte della Commissione Esteri del Congresso Usa, avvenuto appena due mesi fa, ha in fretta e furia fatto preparare i bagagli al suo ambasciatore da Washington. Dagli Stati Uniti un segno di amicizia senza precedenti, una dichiarazione che fa felice la diaspora armena, acerrima nemica di Ankara e da sempre in prima linea a condannare internazionalmente qualsiasi regime anatolico.
Se la pressione sui parlamentari americani ha dato di certo i suoi frutti, fattualmente complica i negoziati per la riapertura dei confini in Caucaso, che rimandati a data da destinarsi è come se velatamente informassero ‘capitolo chiuso’. D’altronde, non sono gli armeni dislocatisi nelle americhe a dover vivere fianco a fianco con i turchi e a fare i conti con l’isolamento causato da due confini sigillati, assieme a quello occidentale turco c’è anche ad est la cesura con il confine azero, e uno ad alta instabilità a nord, con la Georgia.

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