martedì 13 luglio 2010

IL MERCATO GLOBALE TRA MODA E CULTURA, IL RISCHIO DI UN NUOVO COLONIALISMO

E’ la granita della nonna al gusto Coca-Cola. E’ la cena a casa e un film da Blockbuster. E’ la camicia sartoriale sopra un paio di Levi’s. E’ la spesa dal salumiere pagata con Mastercard. La globalizzazione, passa anche da qui. Tradizione e tendenza, cultura e moda che si intrecciano sotto l’idolo della nuova era economica: il mercato globale. Finanza e borse internazionali sono solo la punta dell’iceberg del nuovo commercio, la conquista dei nuovi spazi è più insidiosa e profonda. Parassita del quotidiano la globalizzazione attacca usi e costumi per divenire modello di consumi, e vince con una strategia innovativa, il brand. E’ il marchio a dettare il ritmo della moderna generazione del profitto, mutando geneticamente la sua vocazione di semplice rappresentante di un prodotto.





























Il logo diventa identità, simbolo, “moltiplicatore di valore”, come lo definisce Giampaolo Fabris, cavalcando la svecchiata anima dei moderni surrogati imprenditoriali, le multinazionali. Sono loro il baricentro del nuovo sistema economico, loro a dettare il passo della nuova concorrenza. Una data è significativa per comprendere il mutamento, il 2 aprile 1993, il venerdì “Malboro”. Per rendere la produzione più competitiva la società statunitense abbassa del 20% il prezzo delle sue sigarette. E’ il crollo in borsa di tutti le grandi griffe e degli investimenti pubblicitari che scivolano sulla buccia di banana della “svalutazione” del marchio. Per non farsi trascinare dalla corsa alla svendita alcune grandi società decidono di reagire puntando proprio sul valore della firma. A fare da battistrada in questa direzione il colosso dell’abbigliamento sportivo Nike, che per l’occasione sceglie un’atleta d’eccezione, un marchio vivente, Michel Jordan. Obiettivo, incarnare nel simbolo il rapporto emotivo che le persone creano nei confronti dello sport e dei loro campioni. Si definisce così la strategia dei brand più sofisticati, espandersi nella cultura per conquistarla, rivolgendosi a tutto ciò che è nuovo, ‘cool’, giovane, marginale. Non solo. Nella corsa all’oro la promozione del logo è importante tanto quanto sbaragliare la concorrenza e rimanere soli a giocare in campo. Mettere alle strette l’avversario significa, anche in questo caso, attuare strategie: guerra dei prezzi (Wal Mart), saturazione dei punti vendita (Mac Donald’s), creazione di megastore (Ikea). L’emozione sottende la logica, e quella delle multinazionali è ovviamente il profitto. Produzione e forza lavoro, come in ogni secolo a braccetto, diventano ancor più interconnesse nello scenario della moderna ‘piazza’ mondiale. Alla ricerca di manodopera ‘scontata’ i paesi in via di sviluppo diventano la meta preferita delle grandi aziende attratte da salari bassi, scarsi controlli, e soprattutto, rendita massima. Risparmiare, abbattere i costi, dislocare, appaltare, diventano i must della nuova produzione globale.Così la pagina buia della globalizzazione battezza il nuovo sfruttamento incontrollato, con condizioni di vita ridotte al minimo, in un rapporto asimmetrico tra ricchezza e povertà dai risvolti paradossali, come la dicotomia inscindibile di un nuovo colonialismo.

NAGORNO KARABAKH, UNO STATO INESISTENTE

Gli azeri, nella loro lingua, lo chiamano ‘Giardino nero di montagna’. Dall’alto sembra un piccolo fagiolo, con rientranza ad est, che si estende per quattromila quattrocento chilometri quadrati quasi totalmente nel territorio azerbaigiano, mentre ad ovest, con una piccola striscia di terra prova a toccare il suolo dell’Armenia, madrepatria che fin dall’antichità ne ha custodito i confini. Questa regione che dalla traslitterazione del russo Нагорный Карабах (Nagornyj Karabach) prende il nome di Nagorno Karabakh, di fatto è, da 18 anni, una piccola stato indipendente arroccato tra le montagne della Transcaucasia, abitato da armeni e piccole minoranze azere e curde, con un solo difetto, nessuno che sia disposto a riconoscerlo.



La repubblica presidenziale, dal 1992, da quando una guerra vittoriosa contro l’Azerbaigian l’ha smarcata dal giogo di Baku, si è dotata a tutti gli effetti di sue istituzioni: un suo presidente, un governo, un parlamento e un esercito personale che celebra l’alzabandiera ogni mattina muovendo le labbra sull’inno nazionale. In vari paesi, come l’Armenia, la Russia, la Francia, il Libano e gli Stati Uniti, ci sono addirittura delle missioni con funzione di rappresentanza del governo del Karabakh che ufficialmente e su ogni cartina geografica è di fatto però uno stato fantasma. Il territorio del Nagorno, ricoperto soprattutto sulle catene da fitte foreste che sovente lasciano spazio ad ampie vallate incredibilmente piatte, lungi dall’essere edenico luogo, è infatti il terreno di scontro preferito di Armenia e Azerbaigian, stati ‘neonati’ dalla dissoluzione sovietica, che dagli albori della loro prima esistenza ne rivendicano entrambe il possesso, chiamata la prima da semplici ragioni storico-culturali, da macchinosi invece interessi logistico economici la seconda.

Se la storia volle questa enclave, oggi solo militarmente protettorato di Yerevan, suolo appartenente, già dall’antichità, alla storica Armenia (in tempi moderni ridotta a un decimo della cristiana potenza), con l’impero zarista, nel XIX secolo, la regione entrò a far parte del territorio russo. Caduto quest’ultimo nel1917 per opera della rivoluzione d’ottobre, la sciabola bolscevica la tramutò in parte integrante della Federazione Transcaucasica, che ben presto però si divise tra Georgia, Armenia e Azerbaigian, lasciando a quest’ultima la potestà territoriale, nonché la sovranità della provincia. Così facendo, la mussulmana repubblica azera, si guadagnava un confine e una via d’accesso commerciale con la naturale alleata, la Turchia.

Le pretese azere, seppur prive di ogni giustificazione storico-politica, vennero sostenute dalla Gran Bretagna in cambio dell’accesso ai pozzi petroliferi di Baku. Così, nel 1919, il cristiano e armeno Nagorno-Karabakh fu annesso alla turcofila repubblica dell’Azerbaigian. Gli armeni vissero l’annessione come un’ingiustizia che riapriva la tragica ferita, ancora freschissima, del genocidio di un milione e mezzo di armeni da parte dei turchi. L’avvento del potere sovietico non mutò la situazione. Nel 1921 Stalin, per non inimicarsi i petrolieri azeri e gli amici turchi, sperando che anche lì il comunismo potesse trionfare nell’ex impero ottomano, sotto comando del ‘dividi et impera’ confermò il Nagorno-Karabakh come parte della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian.

Il regime di Baku non fu tollerante con i nuovi arrivati, avviando ben presto nell’annessa regione caucasica una strisciante politica di pulizia etnica verso gli armeni, costretti con la forza a mettere da parte ogni velleità indipendentista. Quando, con la dissoluzione dell'Unione Sovietica alle porte, tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, la perestroika avviata dal presidente russo Gorbaciov rianimò il nazionalismo armeno-karabakho, la questione dell’affrancamento dall’adottivo Azerbaigian riemerse.

Lamentando l'azerificazione forzata della regione operata da Baku, la locale popolazione armena, con il supporto ideologico e materiale dell'Armenia stessa, cominciò a mobilitarsi per riunire la regione alle madrepatria. Il 20 febbraio 1988 i deputati armeni del Consiglio Nazionale del Nagorno-Karabakh votarono la riunificazione della regione alla madrepatria. Ne derivarono tensioni e scontri tra nazionalisti armeni e azeri, che il 24 febbraio provocarono la morte di due giovani azeri. Il giorno dopo a Sumgait, un sobborgo industriale di Baku, i nazionalisti azeri sostenuti dal governo reagirono con un violento pogrom anti-armeno che diede inizio a una spirale di violenze e che culminò, nell’aprile 1991, nell’Operazione ‘Anello’, sferrata dall’esercito azero per completare, con la violenza, l’opera di pulizia etnica del Karabakh. Nel 1991, il vuoto lasciato dal crollo sovietico fece divampare la contesa per la regione.

Quando il 30 agosto l’Azerbaigian dichiarò l’indipendenza da Mosca, tre giorni dopo il Nagorno-Karabakh non poté esimersi dal fare altrettanto da Baku, sfruttando un articolo della Costituzione sovietica secondo il quale se una repubblica decideva di staccarsi dall'Urss, le varie repubbliche o regioni autonome comprese nella repubblica secessionista avrebbero avuto diritto a reclamare la propria indipendenza. Gli armeni dell’enclave non se lo fecero ripetere due volte e da qui, l’inizio della guerra fra le neonate repubbliche dei due paesi fu inevitabile. Nonostante l’aiuto dei turchi, degli iraniani, dei mujaheddin afgani e ceceni, gli azeri non riuscirono a tener testa alle motivate forze armene e karabakhe, sostenute e armate dalla nuova Russia, che infatti presero il controllo del Nagorno-Karabakh e dei territori azeri vicini, necessari a collegarlo con l’Armenia.

Intanto, preoccupati per il perpetuarsi delle attività belliche, i ministri degli esteri degli stati membri dell'Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), il 24 marzo 1992 decisero di indire una conferenza di pace a Minsk (Bielorussia) con la partecipazione, oltre che dell'Armenia e dell'Azerbaigian, anche della Russia, degli Stati Uniti e di Italia, Germania, Cecoslovacchia e Svezia. Il risultato fu però un nulla di fatto. Il cessate il fuoco arrivò infatti solo tre anni dopo l’inizio della contesa che portava ormai sulle sue spalle il peso di oltre 30mila morti e di circa un milione di profughi. Fu nel maggio del 1994 che, grazie alla mediazione russa, i due stati contendenti giunsero all’armistizio, ma senza una pace il problema di fondo rimase, l’appartenenza del Nagorno-Karabakh all’Armenia o all’Azerbaigian.


LA GEOPOLITICA INTERNAZIONALE E GLI OSTACOLI ALLA PACE
I delicati equilibri internazionali per il controllo delle risorse sembrano non giocare a favore del piccolo Nagorno, spossato ormai da decenni da tensioni esterne (la contesa tra Armenia e Azerbaigian) e interne (i rapporti non affatto semplici con le minoranze curde e soprattutto azere) che premono sui suoi confini.
A complicare la situazione e a rendere difficoltosi i negoziati tra i due paesi, patrocinati con scarso successo dall’Osce, sono intervenuti spinosi aspetti di geopolitica internazionale. L’Armenia ha progressivamente stretto i suoi legami politici ed economici con l’Iran e la Russia. L’Azerbaigian ha fatto altrettanto con la Turchia, la Georgia e gli Stati Uniti, soprattutto in relazione alla costruzione, iniziata nel 2002, del mega-oleodotto Baku - Tbilisi - Cheyan (Btc) e inaugurato 4 anni fa.

Un progetto da quattro miliardi di dollari voluto dalle compagnie petrolifere americane ed europee per portare sui mercati occidentali lo strategico petrolio del Mar Caspio dalle coste azere della capitale Baku, ai terminal turchi di Cheyan, passando per la Georgia, e bypassando così il territorio russo e iraniano (entrambi filoarmeni). Un progetto che Mosca considera estremamente dannoso per i propri interessi economici e che per questo vedrebbe volentieri naufragare, a causa, magari, proprio della riesplosione di un conflitto armato proprio in una delle zone di passaggio delle condutture. Il Btc, tra l’altro, non sarebbe l’unico progetto che con il sostegno della Turchia, Baku, dipendente per il novanta per cento dall’esportazione del greggio, avvallerebbe.

Aiutata dalla Georgia, assieme alla quale da anni è stata intrapresa una politica energetica di collaborazione per sottrarre alla Russia l’egemonia della sottrazione del petrolio caspico, in previsione del raggiungimento di un’indipendenza non solo formale da Mosca, la capitale azerbaigiana ha avviato nuovi progetti per l’allargamento dei gasdotti esistenti, come il Baku-Tbilisi-Erzurum, considerato il primo tratto del più ampio progetto del Trans-Caspio. Il gas azero potrebbe rientrare però in una partita ancora più grande che stavolta tocca l’Europa: il progetto Nabucco, sponsorizzato dall’Unione Europea, sostenuto dagli Stati Uniti e concepito per ridurre la dipendenza del vecchio continente dal gas russo diversificando le forniture a fronte di una crescente dipendenza dalle importazioni di energia.

La rete prevede la costruzione di un gasdotto di 3.300 km che dalla Turchia dovrebbe arrivare fino all’hub di gas dell’Europa centrale, a Baumgarten in Austria. Il progetto che al momento sembra più un pronostico sulla carta che un’opera destinata a realizzarsi nel breve periodo (tanto che aggiustamenti nella tabella di marcia ne avevano previsto l’inizio dei lavori nel 2009 con completamento nel 2013 della prima fase e nel 1018 della seconda), continua ad essere rinviato in parte per al divieto statunitense di sviluppare il gas iraniano, in parte per i problemi di bilancio legati alle difficoltà di attirare gli investimenti privati necessari a finanziare il progetto. A far arrancare le buone intenzioni inoltre, ulteriore problema, i contratti con i fornitori. Ed è qui che l’Azerbaigian viene a figurarsi in un ruolo centrale. Il giacimento azero di Shah Deniz sembra essere infatti uno tra i favoriti, non si esclude quindi il possibile ingresso della compagnia petrolifera nazionale dell’Azerbaigian, partner di Bp nell’estrazione del gas dal giacimento di Shah Deniz, nel consorzio di Nabucco.

Al di là dei progetti in fieri, è nel frattempo l’arma del petrolio azero quella che si sta dimostrando la più efficace nei confronti delle potenze internazionali, che nonostante i tentativi di pace avviati, di fatto, non riconoscendo ufficialmente l’indipendenza della regione caucasica, lasciano così in mano all’Azerbaigian, che ne reclama il possesso promettendo un non ben definito "alto grado di autonomia", il coltello della contesa che preme sull'Occidente per costringere gli armeni alla cessione del territorio karabakho. Perché di fatto il Karabakh, salvo la zona settentrionale, dal 1991 è in mano armene, militarmente almeno. E l'Armenia ed il Karabakh, dati i precedenti, non fidandosi delle promesse della nazione mussulmana e turcofila, pretendono che il Karabakh non sia sottoposto all'Azerbaigian, ma abbia una contiguità territoriale con la madrepatria cristiana e sicure garanzie per la propria sicurezza.




LE RICHIESTE DI ARMENIA E AZERBAIGIAN


Il complesso processo di pace riguardante il Nagorno Karabakh dal 1993, data del cessate il fuoco, tra battute d’arresto e momenti d’alta tensione tra le due potenze contendenti, la cristiana Repubblica armena e il mussulmano Azerbaigian, non si è mai arrestato. A tentare una mediazione negli anni successivi furono la Russia, il Kazakistan e l'Iran, a cui si aggiunsero l'Onu e la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Tutti i negoziati ebbero però scarso successo e spesso i cessate il fuoco non vennero rispettati. Una nuova fase si è aperta intanto dal 2004, quando ha avuto inizio il ‘processo di Praga’; in quel caso, come anche in occasione della dichiarazione di Madrid del novembre 2007 o la dichiarazione di Mosca del novembre 2008, gli accordi sono stati sottoscritti da Armenia ed Azerbaigian, senza la partecipazione delle autorità dello stesso Nagorno Karabakh. Un insuccesso della politica internazionale che sembra non essere in grado di venire incontro alle richieste della repubblica caucasica, che si scontra con le mire azerbaigiane a voler mantenere intatti i propri confini includendo la piccola enclave armena.

Difficilmente conciliabili, le pretese azere e quelle karabakhe basano le loro pretese su principi totalmente differenti. Per la repubblica turcofila l’integrità del proprio suolo è il punto imprescindibile per avviare con il Karabakh una politica più ‘distensiva’. La regione caucasica dal canto suo non vuol venire meno alla sua necessità di autodeterminarsi come popolo. L'Azerbaigian, che considera tra l’altro questa disputa una contesa esclusiva fra lo stato armeno e quello azero, per poter accusare Yerevan di mire territoriali, si rifiuta di trattare con i rappresentanti del Karabakh, rendendo fattualmente la conciliazione sempre più lontana. Dall’altra parte l'Armenia, rigettando l’impostazione di Baku, continua a battersi perché le trattative avvengano tra i governi azerbaigiano e karabakho, che disertando puntualmente ogni tavolo di trattativa, permette alla capitale azera di fare il vuoto attorno alle pretese filo armene che nessuno stato occidentale di fatto sembra disposto ad accettare.
Se il cessate il fuoco, instaurato nel 1994 fino ad ora ha retto, lascia dietro di sé una tregua fragile che potrebbe minare gli interessi che Iran, Turchia, Stati Uniti e Europa lasciano trasparire per le preziose forniture di petrolio e gas caspico che Gazprom, il colosso energetico russo e Mosca non intendono cedere al dominio dei vicini orientali. Il rinfocolarsi continuo del nazionalismo azero contro il dominio armeno nella regione karabakha non sembra inoltre voler lasciare spazio ai tentativi dell’Armenia che, per una mediazione tra le parti, sarebbe disposta, in cambio di un accordo stabile, a cedere alcuni dei suoi territori, circostanti i confini dell’enclave, chiedendo, in cambio, il riconoscimento dell'indipendenza del Karabakh da parte dell'Azerbaigian, o l'annessione all'Armenia.
E il problema del riconoscimento, o meglio della modalità secondo la quale il processo dovrebbe avvenire, rimane una delle questioni insormontabili sulle quali Yerevan ancora una volta non riesce a trovare l’appoggio del suo vicino di casa. Se il governo armeno vorrebbe difatti che il riconoscimento da parte azera dell'indipendenza della regione caucasica avvenga contestualmente ( e non successivamente) alle loro cessioni territoriali, l'Azerbaigian, dal canto suo, invece, propone, solo per un avvio delle trattative, il preventivo ritiro di tutte le forze armene dall’enclave. Secondo Baku, la smilitarizzazione del territorio azero occupato è infatti il primo passo obbligato per dare inizio a colloqui e mediazioni per la definizione dello stato giuridico del Karabakh. Definizione a proposito della quale il governo azerbaigiano non ha reso nota alcuna proposta che non sia fino ad ora andata oltre la promessa del riconoscimento, alla regione, di un ‘alto grado di autonomia’.
E' evidente che, accettando l'impostazione azera, gli armeni si priverebbero dell'unica arma atta ad assicurare il riconoscimento dell'indipendenza del Karabakh, che,una volta restituiti all'Azerbaigian i territori circostanti la regione, diverrebbe molto più vulnerabile di fronte ad un probabile attacco azero, volto a riconquistare l'intero Karabakh. Nell'ambito delle varie proposte è stata anche ripetutamente ventilata l'ipotesi di una cessione agli azeri di una lingua di terra nel sud dell'Armenia, il cosiddetto corridoio di Meghrì, per permettere all'Azerbaigian di raggiungere la contiguità territoriale con il Nakhicevan, regione che gli appartiene, ma dalla quale è separato da un diaframma costituito dalla porzione meridionale dell'Armenia.
In cambio di questa cessione, l'Azerbaigian cederebbe il Karabagh all'Armenia. Ma quest'ultima fino ad ora si è opposta affermando che non è disposta a cedere un territorio armeno per ottenere in cambio un altro territorio armeno. Inoltre la cessione di Meghrì all'Azerbaigian priverebbe l'Armenia del confine con l'Iran, paese amico che costituisce la principale via di comunicazione dell'Armenia con l'esterno. Oltre a ciò, una volta ceduto Meghrì, l'Armenia verrebbe circondata da tre lati da stati ostili, Turchia ed Azerbaigian. Rimarrebbe al nord la Georgia, paese instabile che, desideroso di affrancarsi dal giogo russo, si avvicina sempre più alla Turchia. Con tutto quello che ciò può comportare per l'Armenia.


IL NAGORNO KARABAKH E LA PACE IMPOSSIBILE TRA ARMENIA E TURCHIA
Mediterraneo e Caspio non si riavvicineranno. L’Armenia da una parte, la Turchia dall’altra, un anno dopo la firma dell’accordo storico che le aveva viste brindare assieme alla normalizzazione dei rapporti tra i due paesi e alla riapertura delle frontiere, vede sbiadire così l’inchiostro che le aveva unite sette mesi fa, almeno sulla carta. Un respiro di sollievo per l’Azerbaigian che in seguito alla ratifica del trattato si era innervosito alla notizia degli storici alleati turchi in combutta con gli storici nemici armeni, senza che neanche fra i due vi fosse stato cenno esplicito a voler risolvere l’annosa questione del Karabakh ‘azero’, trasformatasi nel 1993 in enclave armena sotto il controllo dei soldati di Yerevan.
La data è storica perché fu da allora, per mostrare solidarietà ai suoi fratelli turcofoni, che Ankara decise di chiudere le sue frontiere orientali. Da due mesi a questa parte il matrimonio in crisi tra Azerbaigian e Turchia sembra però essersi avviato verso una seconda luna di miele. Motivo scatenante della rinnovata passione, neanche a parlarne, il congelamento dell’epocale accordo con l’Armenia, comunicato per l’occasione dallo stesso governo di Yerevan, che ha motivato la decisione con ragioni di principio, in apparenza vaghe: mancanza di convinzione e di impegno, scarsa disponibilità a firmare in breve tempo l’accordo senza apportare modifiche da parte di Ankara e tensioni ancora esistenti. Se da parte turca rimangono aperte le porte per arrivare alla normalizzazione degli accordi bilaterali e rispettare gli accordi di pace raggiunti con l’Armenia, il governo anatolico conferma però che persiste qualche problema a dividere i due vicini.
Nulla di fatto quindi per turchi e armeni, sulla quale pende la spada della regione caucasica, azera di nome e armena di fatto ormai da 18 anni. E’ infatti il nodo per Nagorno-Karabakh che i due paesi non riescono a sciogliere e sulla quale l’Armenia vuole garanzie precise dai vertici di Ankara. E dire che giusto all’indomani dello storico accordo su un quotidiano di Istanbul, a dispetto delle polemiche azere, erano apparse indiscrezioni sul possibile ritiro delle truppe armene dal Karabakh. Secondo il giornale, nei colloqui che avevano portato alla firma dei protocolli di riconciliazione con la Turchia, Yerevan avrebbe infatti manifestato la volontà di venire incontro alle richieste dei contendenti azeri, promettendo che i suoi soldati avrebbero abbandonato l'enclave prima della riapertura del confine.

Sarebbe stato un passo epocale, ma sicuramente troppo in là per il piccolo stato armeno, dove l'opinione pubblica, accolta la notizia dell’accordo per la riapertura del confine occidentale, aveva cominciato a manifestare una certa insofferenza e malcontento per l’atteggiamento del suo presidente che pur di andare incontro ad Ankara stava vistosamente scivolando su due argomenti cruciali per il popolo armeno: il riconoscimento del genocidio turco e quello, appunto, dello status del Nagorno Karabakh. Preponderante la questione di principio quindi; di fatto Yerevan non è decisamente disposta ad abbandonare a sé stessa una regione che la guerra e la retorica nazionalista hanno trasformato nel simbolo stesso dell'orgoglio patriottico.
Nonostante dalla presidenza armena ci fossero state infatti dichiarazioni ambigue circa la risoluzione della contesa che lasciavano trasparire la possibilità per la piccola enclave di decidere con il consenso e la libera volontà della popolazione armena che vive lì, il gelo ricalato tra i due paesi dimostra che la questione è tutt’altro che risolta e tutt’altro che risolvibile in tempi brevi. Senza contare che anche l’ammissione del mea culpa turco nei confronti della confinante Armenia per i pogrom portati avanti dai Giovani turchi a metà della seconda decade del Novecento sembra lasciare aperto un divario insanabile.
A dimostrarlo l’atteggiamento non proprio riservato del governo di Ankara che alla notizia del riconoscimento del genocidio turco da parte della Commissione Esteri del Congresso Usa, avvenuto appena due mesi fa, ha in fretta e furia fatto preparare i bagagli al suo ambasciatore da Washington. Dagli Stati Uniti un segno di amicizia senza precedenti, una dichiarazione che fa felice la diaspora armena, acerrima nemica di Ankara e da sempre in prima linea a condannare internazionalmente qualsiasi regime anatolico.
Se la pressione sui parlamentari americani ha dato di certo i suoi frutti, fattualmente complica i negoziati per la riapertura dei confini in Caucaso, che rimandati a data da destinarsi è come se velatamente informassero ‘capitolo chiuso’. D’altronde, non sono gli armeni dislocatisi nelle americhe a dover vivere fianco a fianco con i turchi e a fare i conti con l’isolamento causato da due confini sigillati, assieme a quello occidentale turco c’è anche ad est la cesura con il confine azero, e uno ad alta instabilità a nord, con la Georgia.

DOPO LA “GRANDE CRISI” LA “GRANDE FAME”, DAL 2009 SENZA CIBO 1 MILIARDO DI PERSONE

Il gemito degli affamati è un rantolo sordo, Fao o no che si rispetti. Raggiunti storici livelli, un miliardo di persone a rischio malnutrizione, le stime dell’organizzazione mondiale per il cibo e l’agricoltura sono la nota stonata del savoir faire, più un laissez faire a dir la verità, dell’attivismo di governi e istituzioni votate alla lotta contro la sottoalimentazione.




Nel 2009, dopo la “grande crisi”, a colpire è arrivata anche la “grande fame”. Il cordone della sicurezza alimentare si stringe ancora una volta attorno ai paesi in via di sviluppo, nei quali è concentrata la quasi totalità della popolazione carente di cibo. Asia e Pacifico contano 642 milioni di affamati, l'Africa sub sahariana 265 milioni, in America Latina e Caraibi le cifre si ‘abbassano’ a 53 milioni, nel Vicino Oriente e Nord Africa a 42 milioni. Nei paesi sviluppati gli indigenti toccano invece i 15 milioni. Causa recessione, in queste regioni i trasferimenti monetari degli emigrati sono diminuiti drasticamente, insieme ai fondi dell'assistenza allo sviluppo e degli investimenti esteri, con conseguenze da un lato sulla produzione e dall'altro sulla sicurezza e la protezione sociale. Una recrudescenza, spiega Jan Ziegler, ex relatore speciale dell’Onu sul cibo, trascinata soprattutto da due fattori:“la speculazione sui beni di alimentazione primaria, che ha fatto crescere i prezzi dei cereali di base fino all’83%” e “la produzione dei biocarburanti”. “Per un pieno di 50 litri di bioetanolo”, sottolinea, “bisogna bruciare 350 chili di mais”, una quantità tale che permetterebbe a un bimbo dello Amabia o del Messico di vivere per un anno. E mentre un quarto di tutta la raccolta cerealicola annuale del mondo viene utilizzata per nutrire i buoi dei paesi ricchi, è la stessa Fao a sostenere che l’agricoltura sarebbe in grado di soddisfare il fabbisogno alimentare di 12 miliardi di persone, poco meno del doppio, dei quasi 6 miliardi e 800 milioni di abitanti della terra. Da qui al 2015 moriranno di fame, invece, 400 mila bambini in più all’anno, mentre altri 12 milioni, secondo le statistiche, sono vittime, già oggi, di malattie scongiurate, come dissenteria e morbillo, o curabili, come polmonite, malaria e tubercolosi. Un capitolo a parte, i fondi, sono la pioggia sul bagnato della miseria. La crisi li ha tranciati quasi del tutto, nonostante le promesse di organismi come il G8. Anche gli stati, però, latitano di esempi virtuosi. Tra i “donatori” proprio l'Italia è terzultima su 22 paesi avanzati, peggio di noi soltanto Grecia e Usa. A rivelarsi inefficaci, inoltre, gli aiuti umanitari, talora dannosi, quando inutili eccedenze, minando i mercati di destinazione, hanno addirittura tagliato fuori dal commercio gli stessi produttori locali.

I PROBLEMI DELL’ITALIETTA POST BOOM CHE LA RENDONO LA ‘ZOPPA’ D’EUROPA

Lo Stato italiano è zoppo e continua ad arrancare il passo nella competizione europea, affaticato. Ultimo posto nelle classifiche di competitività, grado d’istruzione e tasso di occupazione. Minimo degli investimenti stranieri. Produzione energetica troppo costosa, deficit infrastrutturali, record di durata dei processi civili. Il bollettino è l’elenco delle ‘palle al piede’ di cui la penisola non riesce a disfarsi neanche per imparare a volare a mezz’aria, mentre sulle sue spallucce fragili, a gravarne lo sforzo, si insidia ancora una volta il peso di un debito pubblico, che anche per il 2009 riconferma cifre stellari. Il 104,1 del Pil, equivalente a circa 77 miliardi di interessi, praticamente tre finanziarie. Tra i problemi dell’italietta post boom anche il welfare, un capitolo a parte della spesa dello Stato. Il 14% del Pil infatti deve fare i conti proprio con le ingenti uscite per pensioni d’anzianità e invalidità che, soprattutto al Sud, rappresentano un sostegno sociale a redditi troppo bassi o inesistenti.



Un correttivo il governo l’aveva trovato varando una riforma per consentire il prolungamento del’età pensionabile per uomini e donne, seguendo la scia europea, adeguando i costumi della ‘sfaticata’ penisola agli standard dei più laboriosi. I primati che inibiscono il decollo sono anche altri però e proseguono lungo lo stivale sul versante economia sommersa. L’evasione fiscale accertata ammonta a 200 miliardi di euro non dichiarati ogni anno al fisco, per un’evasione pari a 100 miliardi. Colossale fortuna sfuggente alle casse statali che per recuperare il maltolto legano il rispetto della legalità a condoni estemporanei dal discusso successo morale e contante, se non per qualche lungimirante furbetto. Senza contare i salvadanai nascosti che Mafia, Camorra e ‘ndrangheta difendono in avamposti storici come Campania, Sicilia e Calabria, al di fuori di qualsiasi controllo da parte dei preposti poteri. Ad ancorare saldamente la penisola tra gli stati ‘meno efficienti’, anche il comparto energia. La bolletta degli italiana è infatti la più cara, e la crisi finanziaria non ha certo contribuito ad alleggerire il saldo.
Il freno all’economia però passa anche per l’inefficienza dei servizi, da quelli bancari per finire alla nettezza urbana, a fronte di costi collettivi notoriamente troppo alti. Amministrazione pubblica in primis. Il regno degli sprechi però se lo aggiudica la politica. Lo sanno bene Angelo Rizzo e Gian Antonio Stella che sui soldi gettati dalla finestra per finanziare partiti e co. sono riusciti a scriverci un libro intero. In barba addirittura ad un referendum che aveva sancito popolarmente l’addio ad indennizzi, le ‘fazioni’ parlamentari vedono rientrare nei loro depositi, grazie ad un escamotage, fiumi di denaro sotto forma di, formalmente più sobri, rimborsi spese elettorali per regionali e politiche, ovviamente Camera e Senato separati. E tutto questo senza contare i costi medi per parlamentare che si confermano con 1.531.952 di euro i più alti in Europa. Lo sperpero, caratteristica congenita del Paese, non risparmia neanche le infrastrutture. Sospese o abbandonate, al Nord come al Sud. In Piemonte ad esempio un orfanotrofio costato 33 miliardi di lire versa in stato d’abbandono, mentre la Puglia attende dall’Ottanta l’invaso del Pappadai, nel tarantino, che dovrebbe contenere milioni di metri cubi d’acqua e per il quale sono stati spesi 750 miliardi della vecchia moneta.
Anche la spesa per la giustizia non registra passi da gigante. Dal ’90 oltre il 140% in più, con cause civili triplicate e raddoppiate nella loro durata. E la voce burocrazia legale, assieme lenta e farraginosa, influisce negativamente anche sugli investimenti esteri che dal belpaese fuggono sempre più lontani. Scappano i soldi, ma anche i cervelli. Il problema sta tutto in una sola parola: competitività. O meglio, nella sua mancanza, che tocca anche uno dei settori più delicati, l’istruzione. La maggior parte degli studenti italiani risultano più ignoranti rispetto ai loro colleghi europei, ma per quelli di loro, premiati dall’onore di una laurea e poco dalla meritocrazia, non resta altra scappatoia che un biglietto di sola andata per l’estero.

ATTENTI A QUEI DUE, ABS E CDO ALLA GENESI DELLA CRISI ECONOMICA MONDIALE

Passato lo tsunami, il vento della crisi sembra non voler abbandonare i mercati finanziari. Con la Grecia in coma per lo squilibrio dei conti pubblici, l’effetto domino di una ricaduta continua ad aleggiare sull’intera Europa, gettando anche oltreoceano il seme della discordia di un possibile riflusso. Varato dall’Ue il piano ‘salva euro’, la lezione sulla regulation torna di moda. E al grido regole, regole, regole, sembrano essere richiamate dall’oltretomba le vittime eccellenti della grande bolla del 2007, Lehman Brothers in testa.




A forgiare infatti la più grave recessione dei tempi moderni, che per catastrofismo ricorda solo quella del 1929, proprio quell’assenza di controlli ed eccesso di speculazione che il capitalismo ‘perfetto’ non era riuscito a frenare. A farne le spese banche e istituti di credito di mezzo pianeta, invaghiti dall’inarrestabile fiducia del mercato. Risultato: miliardi di dollari in fumo e grandi istituzioni finanziarie mondiali, come Banca centrale europea e Fed, trovatisi a immettere liquidità nel sistema bancario, per evitare il peggio. A cimentarsi nel fallimento, infatti, non solo sprovveduti bancari, ma ‘solidi’ istituti che il credit crunch, senza i soldi dell’erario, avrebbe condotto sicuramente al collasso, con scenari da film hollywoodiano. Ironia della sorte, il mito delle banche tentacolari, dopo la grande bolla, non si è affatto smorzato, anzi, ha generato nuovi mostri ancora più pericolosi: “banche troppo grandi per fallire”, con il rischio, di alimentare “distorsioni di un sistema in cui i profitti sono privati e le perdite sono pubbliche” come sottolinea il rettore dell’università Bocconi Guido Tabellini. Ma cosa c’è stato alla genesi della crisi? In sintesi si potrebbe parlare di fiducia eccessiva, mista ad eccessiva avidità, quella stessa che John Keynes soleva definire un ‘animal spirit’ da controllare con l’educazione e la cultura. Confusa forse dall’11 settembre, l’economia statunitense, dimentica dell’una e dell’altra, è stata invece pervasa da una sorta di sindrome da ‘cartolarizzazione’, ossia, la tendenza delle banche a vendere i propri rischi di credito in credito trasformato in titoli. Favorita dalla Fed la tendenza all’indebitamento delle famiglie americane, con l’immissione di liquidità illimitata a ‘costo zero’, per rilanciare consumi ed economia, gli istituti finanziari, dal canto loro, ‘penalizzati’ dai bassi tassi d’interesse, hanno rincorso l’alchimia per convertire derivati dalla rendita stabile in vero e proprio oro. Il primo passaggio era stata la creazione degli Abs, mutui immobiliari trasformati in titoli obbligazionari, collocati appunto tramite cartolarizzazioni sul mercato. Step iniziale per l’ingegneria finanziaria che di lì a breve avrebbe compiuto un altro passo. Gli stessi titoli cartolarizzati, originati dai mutui immobiliari e raggruppati con titoli derivanti da altre attività soggette ad alto rischio d’insolvenza, ad esempio i mutui subprime, avrebbero dato infatti, a loro volta, vita ai Cdo, meglio noti come titoli salsiccia, per la loro caratteristica di poter essere tagliati e venduti a “fette”, a seconda dei rischi e dei tassi d’interesse. Naturalmente, a curarne l’emissione le stesse banche, mascherate da apposite società cui venivano cedute le attività in garanzia e i conti in rosso del fuori bilancio. Nel terzo round ulteriore evoluzione, i Cdo assumono vita propria. Con Cdo che contengono solo Cdo o Cdo utilizzati come garanzie di altri prestiti. E il meccanismo è tale che nessuno, alla fine, sa più cosa ci sia dentro quella ‘salsiccia’. Neanche le stesse agenzie di rating, che, infatti, hanno dato a molti Cdo la tripla A della massima affidabilità. Nel 2007, complice la forte inflazione, quando un americano di troppo ha deciso di non rimborsare il suo mutuo, o di rimborsare i prestiti meno di quanto previsto, Abs e Cdo sono diventati carta straccia, e con i fondi delle banche dichiarati insolvibili la bolla scoppiata ha fatto esplodere con se anche la più irrazionale delle teorie economiche: “un’economia - come osserva l’economista statunitense Paul Krugman - in cui gli individui razionali interagiscono in mercati perfetti”. Ma se il meccanismo è imperfetto, ovunque torbido, è davvero possibile avere ancora fiducia nel mercato? Sibillina l’osservazione di Tabellini “senza interventi radicali saremo presto investiti da un’altra crisi”.

martedì 18 novembre 2008

Malagrotta, perchè la Termoselect non convince

Ho fatto una ricerchina sull'azienda che ha fornito la tecnologia per l'impianto di Malagrotta, la Thermoselect. Pare che l'azienda non sia esattamente all'avanguardia dal punto di vista della sicurezza. Due episodi possono spiegare meglio. L'unico gassificatore (identico per progetto a quello di Malagrotta) costruito dalla T. in Europa si trova a Karlsruhe, in Germania, che aperto nel '99, ha dovuto chiudere i battenti tre anni fa, dopo denunce varie e un'indagine della magistratura. Nel 2000, dopo appena un anno quindi, si erano già riscontrati alcuni "problemi operativi" che ne avevano sospeso il funzionamento: fughe di gas tossico, incrinature nel cemento della camera ad alte temperature causate dalla corrosione e dal calore (tali da provocare un'esplosione),e perdite di liquido da un bacino di sedimentazione che conteneva acque di scolo contaminate da cianuro. Ancora, nel 2002 un monitoraggio aveva certificato il superamento delle emissioni di diossine, metalli pesanti e altri agenti inquinanti rispetto ai limiti imposti nel 2000. In due casi su tre, le verifiche, avevano per di più certificato dei livelli di diossina più alti nei gas "ripuliti" che in quelli ancora sottoposti ai meccanismi di filtraggio dell'impianto. Nello stesso anno era stato riscontrato un utilizzo di 17 milioni di metri cubi di gas naturale, senza alcuna produzione nè di elettricità e calore. Le difficoltà dell' EnBW (la ditta proprietaria dell'impianto) hanno condotto poi la stessa azienda a sospendere la costruzione di un altro inceneritore per la gassificazione nella città tedesca di Ansbach,a causa dei problemi del "confratello" di Karlsruhe. Quando nel 2004 l'EnBW decise di chiudere l'impianto, le perdite di gestione ammontavano a 400 milioni di euro.
Il "Bund", un gruppo di cittadini ed ambientalisti della regione di Francoforte, dopo l'abbandono del progetto che prevedeva la costruzione di un impianto identico ad Hanau (nel 2000 e per lo stesso motivo che ne aveva fermato la realizzazione ad Ansbach), riferì, tra le cause della decisione, di rilevanti disfunzioni nel rivestimento dei refrattari. Una cosa non nuova. E qui arriva il secondo punto. La stessa Thermoselect, che in Italia, a Fondotoce (sul Lago Maggiore), aveva installato un impianto simile nel 1992 (chiuso nel 1999, anche qui dopo una serie di vicende giudiziarie), fu condannata per stoccaggio di materie nocive, dopo che, la Kiss, che ne gestiva la proprietà, ebbe una lunga vertenza (per alcuni miliardi di lire che non voleva pagare) con una ditta di Trezzano sul Naviglio sostenendo non gli avesse fornito refrattari di qualità. Una perizia della Breda siderurgica attestò in seguito trattarsi di refrattari al cromo di prim'ordine. Ma nell'impianto, causa l'altissima temperatura, duravano pochissimo ed essendo peraltro assai velenosi si arrivò a dover stoccare sul piazzale queste scorie. Le violazioni ambientali riscontrate, inoltre, interessarono anche l'inquinamento del lago con composti tossici, compreso il cianuro, il cloro e composti di azoto ( cosa riscontrata anche nel'impianto di Karlsruhe, che nel 2003 ha smaltito circa 120.000 metri cubi di acqua di lavaggio nel Reno). In italia i funzionari della Thermoselect, oltre ad esser stati costretti a fermare l'impianto, sono stati condannati a sei mesi di arresto con la condizionale e al pagamento di multe. A questo si aggiunge il fatto che l'impianto non è stato in grado di funzionare a piena capacità per mai più di un mese.

Il progetto di Malagrotta è protetto da segreto industriale. In sintesi, non ci sono garanzie di sicurezza riguardo l'emissione di sostanze tossiche e di rifiuti inquinanti ( e l'eventuale deposito di questi ultimi rimane ad oggi sconosciuto). Un'incognita è inoltre rappresentata dalla quantità di rifiuti che riuscirebbero ad essere smaltiti, oltre alle grandi quantità d'acqua e di energia che il funzionamento del gassificatore necessita.

sabato 25 ottobre 2008